i simboli del Salento

Geco, da mostro a portafortuna del Salento

La crescente antropizzazione e l’impiego di diserbanti avranno anche ridotto il numero dei gechi, ma per fortuna non sono riusciti a eliminare questi animaletti tanto schivi quanto utili all’uomo, preziosi per l’equilibrio faunistico e così speciali da attirare l’attenzione degli ingegneri della NASA.

Non c’è superficie, per liscia che sia, su cui i gechi non sono capaci di aderire saldamente sfidando la forza della gravità e ciò è dovuto alle innumerevoli lamelle delle zampe, una caratteristica che non poteva lasciare indifferenti coloro che si occupano di tecnologie aerospaziali.

I gechi sfruttano le forze di Van der Waals per aderire alle superfici senza ventose e arrampicarsi sui soffitti delle abitazioni, ed è proprio qui che si rivelano nostri validi alleati in quanto si nutrono di zanzare e altri insetti che tormentano le notti estive. Sarebbe una ragione in più per non ammazzare i gechi e invece c’è ancora chi ne dà la caccia per tutta la casa. Se anticamente si credeva che i gechi fossero velenosi e addirittura pericolosi per le donne incinte, oggi sono venerati come divinità in Polinesia e considerati dei portafortuna in Salento.

Per i salentini il geco ha assunto una valenza simbolica pari soltanto al ragno tarantolato, tanto è vero che sui tamburelli della pizzica la sagoma del geco ha affiancato o sostituito quella della tarantola. Vagando per il Salento si legge “gecu” in ogni dove, e a questo simpatico e apotropaico sauro si dedicano insegne di centri vacanza e associazioni culturali.

punto con il geco comune, la tarantola muraiola dal corpo tozzo e corazzato.

I fichi d’India

 sono piante succulente provenienti dal Messico e che crescono bene in terre soleggiate come il Salento, ma ormai il binomio di muretto a secco e fico d’India è così diffuso e radicato da assurgere a nota distintiva del paesaggio salentino. Lo sanno bene i contadini che in estate si rifocillano con i gustosi frutti, ma lo hanno notato anche i turisti che vedono comparire le caratteristiche pale in qualsiasi angolo verde e persino sulle scogliere e sulle scarpate impervie.

Le spine che ricoprono le pale e i frutti fanno dei fichi d’India delle piante poco apprezzate da chi non sa come maneggiarle, ma in pochi sanno che anche le bucce e le pale più tenere sono commestibili. Dai frutti si ricavano succhi, confetture e liquori, mentre le bucce si possono gustare fritte.

Complici i recenti cambiamenti climatici e demografici, la FAO ha incluso i fichi d’India tra i cibi del futuro. Per i salentini queste piante sono molto di più, perché sono parte integrante dei paesaggi e incarnano il vecchio che resiste all’avanzata del nuovo.

Le pajare

 sono delle particolari costruzioni tipiche del Salento.

Considerate abitazioni tipicamente rurali e realizzate con la tecnica del muro a secco, di pajare il Salento ne è davvero pieno.

Dall’aspetto vagamente familiare, che ricorda quello ben più noto dei caratteristici trulli di Alberobello, le pajare, generalmente, sono costituite da un unico ambiente che può variare a seconda delle dimensioni delle abitazioni.

Dalla storia piuttosto incerta e controversa, le pajare salentine hanno, di sicuro, un’origine decisamente antica, collocabile presumibilmente intorno all’anno 1000 dopo Cristo, anche se qualche storico, spingendosi ben più oltre, arriva a datarle in epoca ancora precedente, tra il 2000 a.C. e la fine dell’Età del Bronzo. Qualunque ne sia l’origine, però, le pajare salentine s’identificano pienamente con il paesaggio circostante, aggiungendo un pizzico di folklore a un territorio, già di per sé, affascinante e suggestivo.

Utilizzate dai contadini salentini come luogo di riposo dopo un’intensa giornata di lavoro o per sfuggire a un improvviso temporale, le pajare, spesso, fungevano da vere e proprie abitazioni estive, ideali per controllare da vicino, sia il bestiame sia le coltivazioni più delicate.

 il “pasticciotto” 

Il pasticciotto leccese affonda le sue origini nel 1745 a Galatina.

Fu proprio qui ed in questa data che Nicola Ascalone, la cui bottega pasticcera versava in condizioni ormai critiche, creò un “pasticcio” per consumare pasta e crema residui ed insufficienti per fare la classica crostata. Regalata, poi, ad un passante, questi, deliziato dal dolce offertogli, ne celebrò la sua bontà.

Da quel giorno il “pasticciotto” divenne il classico dolce leccese, da gustare rigorosamente caldo.

E, come si dice “Di necessità, Virtù“! Ecco come nasce questa deliziosa e friabile pasta frolla con una soffice crema al suo interno, il “pasticcio” di un pasticcere , alle prese con “ingredienti di risulta”.